Abisso di Vita

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Le Scale attraversano l’Azzuro come Ruote di Fuoco

Una Favola Nera allo sguardo di un quadro di Mirò 

 “La nostra ricerca non ci si propone in un senso d’avventura, di epopea o di retorico progresso, che risuona amaramente al nostro orecchio, ma ridotta al solo pensiero, ci si presenta piuttosto come memmoria che s’infuria nel dolore.” Pier Paolo Pasolini da “Ragionamento sul dolore civile”

 C’era una volta e ci sono stato anch'io in questa storia.
È una storia come tante ma proprio per questa unica. È unica perché, tra tante, valla a trovare una storia proprio così. È così proprio perché è una storia e non una favola, questa è proprio una storia vera e la sorpresa finale è bella proprio perché non finisce bene come una favola e a dir la verità non comincia nemmeno tanto bene. È una storia perché racconta di un ragazzino, non un bambino, un ragazzino, KID! Sarebbe una favola se parlasse del cane del bambino, invece no!
È una storia perché racconta del bambino, che per caso aveva un cane… ma il cane non c'entra nulla, perché è del bambino che stiamo parlando, anzi del ragazzino. Il ragazzino aveva un papà, sì l'aveva perché adesso non ce l'ha più, perché? Dov'é il papà? Il papà è scappato via dal bambino – ora si capisce perché il bambino è ragazzino e non solo bambino – e si è fatto una nuova famiglia nel nord dell'Europa, lontano, dove la terra è bassa, talmente bassa che a volte finisce sotto terra anzi sotto l'acqua. Il ragazzino non ha il papà ma ha ancora il cane.
E la mamma? Non ha neanche la mamma, ma ha comunque il cane. Dov’è la mamma? È morta. Ma allora era molto vecchia? No! Era giovane ma è morta lo stesso. Perché? Aveva la sindrome da immunodeficienza acquisita. Ma perché? Questo proprio non lo so, ma non è tanto importante. L’importante è che il ragazzino esce col cane, è sorridente, qualche volta piange, urla, schiamazza, picchia, è violento ma talvolta è contento. Ma come finisce la storia con la sorpresa finale che è proprio bella. Proprio bella perché il ragazzino non cresce mai, resta ragazzino. Il suo cane che passeggiava con lui, muore… perché era anziano e non perché era malato della sindrome da immunodeficienza acquisita.
Restare ragazzini vuol dire essere matti e deficienti e quando vai dal medico che ti mostra una fotografia con una scala, tu gli dici che vedi una scala. Ma dove porta la scala? Domanda il medico!
Le scale attraversano l’azzurro come ruote di fuoco! KID!! Shock!!

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L’Attore Suicida

Il Fatto grave è che oltre all’ordine di questo mondo ce n’è un altro

Antonin Artaud

Lo scritto di Artaud datato 1947 è il punto di partenza del processo rituale nel quale l’attore liminale (che agisce al suo limite) deve abbandonarsi. Prima di compiere il “gesto” teatrale, che per definizione è extraquotidiano, cioè fuori dalla comodità nella quale ognuno si rifugia, prima di innalzare il proprio “gesto di vita” deve capire e sentire che tanti altri modi, modalità d’espressione sono possibili. Tra questi gesti vi sono quelli che per primi non riescono oppure quelli che creano delle insicurezze. La ripetizione meccanica, durante il suo training, di gesti “difficili” permette all’attore di creare, attraverso la riproduzione degli stessi in spettacolo, una tensione comunicativa, evocativa ed emotiva unica.Lo spettro delle azioni, delle vocalità che può e deve raggiungere per “dare vita” sono al dì fuori dello schema di un mondo preordinato e definito, voluto e imposto, ma soprattutto al di fuori di ciò che l’individuo è, in quanto essere sociale. La diretta conseguenza è che c’è un muro da abbattere, e questo muro non è certo la società nella quale viviamo. Il nemico da sconfiggere è dentro. Sarebbe troppo facile scaricare sulla società, che noi tutti abbiamo costituito, il problema di raggiungere delle vette alte di tensione attoriale. Per voler cambiare le brutture bisogna agire all’interno di se stessi, chiedendosi sempre “siamo disposti ad abbandonare la comodità del facile perché piace?”Nulla ci appartiene, tanto meno la nostra vita, come possiamo darle un senso e un’appartenenza? Quale è l’atto di vitalità assoluta che ci permette di dire questa è la mia vita oppure vivo la mia vita. Oppure qual è il gesto che rende l’attore “vivo” e non la marionetta di se stesso?La vita ha un senso solo quando se ne vede la fine come diceva Jacques Rigaut. Il suicida si oppone con violenza, sia alle leggi naturali che a quelle culturali e divine, riprendendosi e allo stesso tempo togliendosi ciò che gli dovrebbe appartenere.L’attore, allo stesso modo, nel rituale dell’azione teatrale deve rinunciare al mondo facile e trasportarsi in un altro mondo, arrivare nel confine tra reale e irreale che è lo stadio liminale. Da momento in cui si trova nel confine da lui stabilito, nell’altro mondo possibile potrà mostrare ciò che è assente cioè la sua vita.Se l’attore abbatte abbatte ciò che non gli appartiene mostra la vita. Se l’attore, usa comodamente quello che sa fare, pensando che la vita gli appartiene per diritto naturale e divino, mostra il mondo che una particella infinitesimale della vita. Il suicidio è il più grande atto di vitalità. Il gesto estremo di togliersi, per propria volontà, qualcosa che non ti appartiene permette di riappropriarsi di ciò che casualmente ci hanno fatto credere sia di nostra proprietà e possesso. L’attore in scena diviene suicida, non rinunciando a se stesso e alla sua vita, abbandonando il mondo.

 

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Liminalità

Victor Turner (1920-1983) è un antropologo britannico, figlio di un’attrice e di un ingegnere che collaborò all’invenzione della televisione (purtroppo per noi). L’imprinting genetico si farà sentire a corrente alternata nelle sue ricerche. Partendo da Van Gennep formula alcuni concetti interessanti. Si concentra sulla fase di margine, il limen, la soglia. Familiarizziamo con questi concetti.  

Caratteristiche liminali

Separati da un punto stabile della struttura sociale ma non ancora inseriti nella nuova condizione e posizione all’interno della società, i "liminali" (le persone-limite) si trovano in una condizione  ambigua. Occupano uno spazio intermedio, un’intercapedine tra caselle ben distinte e visibili. La loro ambiguità viene spesso descritta ricorrendo a metafore riguardanti la morte, l’essere nell’utero, l’invisibilità ma anche il parto, la gestazione, l’essere neonati. Se consideriamo tutte le cose formate da Sì e No la liminalità può forse essere considerata come il No a tutte le affermazioni strutturali positive, ma in un certo senso anche come la fonte di tutte quante e, in più, come il campo della possibilità pura, dal quale possono sorgere configurazioni nuove di idee e di rapporti. [Victor Turner]

Gli esseri liminali sono difficilmente definibili: non sono né una cosa né l’altra, ma sono sia l’una che l’altra; non sono né qua né là, ma sono in tutti i punti che permettono la separazione tra un "di qua" e un "di là"; non hanno ruolo né status, non esiste struttura o gerarchia: sono una tabula rasa. "Gli deve essere mostrato che di per sé stessi non sono che argilla o polvere, semplice materia, sulla quale la società imprime una forma". Visualizziamo questa terra di nessuno. Se considerate il punto di partenza degli esseri liminali come un quadro di Michelangelo (Creazione di Adamo, per esempio) e il rientro all’interno della società come un dipinto di Mirò (Donna, uccello e stella) il periodo liminale lo potete immaginare come una qualsiasi opera del folle Dalì (da La persistenza della memoria in giù). Tutto quello che c’è di onirico, indistinto, paradossale, provocatorio, disturbante, esaltante in una tela di Dalì sta pure tutto condensato e sparpagliato nella liminalità. 

Struttura e antistruttura

A questo punto è opportuno definire che cosa si intenda per struttura. Turner riconosce due modelli principali che definiscono i rapporti tra esseri umani. Uno definisce la società come un sistema organizzato e gerarchicamente ordinato, dove ognuno occupa delle posizioni sociali, politiche ed economiche. L’altro vede la società come comunità non strutturata, o debolmente strutturata, di individui uguali. Questo modello emerge nei periodi liminali e si alterna al primo. Il discorso, però, non si esaurisce alla semplice successione di struttura e antistruttura. Più che di contrasto si tratta di una dialettica conflittuale tra le due parti che, mentre nega la legittimità di una delle due, in realtà ne afferma l’esistenza e ne costituisce l’origine. Il massimo potenziamento dell’antistruttura provoca il massimo potenziamento della struttura, ma non secondo una logica lineare (che sarebbe troppo "strutturale"). Per spiegare il funzionamento di questo "mostro a due teste" riporto una storiella:

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa. Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco. [Italo Calvino]

Senza antistruttura non c’è struttura.   

Conflitto e contaminazione

Più che alla struttura e all’antistruttura della società Turner è interessato ai processi, ai movimenti, ai conflitti. Alle crisi che segnano i passaggi da uno stadio all’altro dell’esistenza. È uno strutturalista atipico. Le sue analisi si sposteranno sempre più verso le crisi e quelli che chiamerà "drammi sociali", che analizzeremo più avanti. Ma già nella definizione di liminalità include aspetti conflittuali e contaminanti. Per Turner il concetto di contaminazione è "una reazione per proteggere dalla contraddizione principi e categorie intensamente partecipati". Gli esseri transizionali dovrebbero essere particolarmente contaminanti per le persone, gli oggetti e gli eventi che non fanno parte del contesto liminale. Ogni manifestazione anarchica che mette in crisi il sistema dominante dovrebbe essere eliminata, o quanto meno limitata. Ogni software aborre il bug che può mandare in tilt il sistema.  

Communitas

Comunità è il non essere più fianco a fianco (e, si potrebbe aggiungere, sopra e sotto) di una moltitudine di persone, ma l’essere l’uno con l’altro. E questa moltitudine, pur muovendosi verso un obiettivo, tuttavia sperimenta dappertutto un volgersi a, un dinamico star di fronte degli altri, un fluire dall’Io al Tu. La comunità è là dove si fa evento la comunità. [Victor Turner]Uguaglianza, solidarietà, nessuno che è "più" di un altro, niente ranghi e gerarchie. Privati dei ruoli e delle posizioni istituzionali i liminali possono essere "sé stessi", e liberi da regole e imposizioni possono costruire rapporti sinceri: le amicizie profonde tra novizi sono incoraggiate ed essi dormono intorno ai fuochi del capanno d’iniziazione in gruppetti di quattro o cinque amici particolari. Tuttavia, di tutti si pensa che siano legati da vincoli speciali che persistono dopo la conclusione dei riti, fino anche all’età anziana. [Victor Turner]

"Quasi dappertutto la si considera 'sacra' [la communitas], probabilmente perché viola o annulla le norme  che governano rapporti strutturali e istituzionalizzati, ed è accompagnata da esperienze di una potenza senza precedenti". Queste esperienze hanno un carattere ontologico e modificano la natura stessa degli individui, plasmandoli come un sigillo nella cera. Potenzialmente queste caratteristiche sono estendibili a tutta l’umanità; la communitas è una società aperta, a differenza della struttura.

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Ygramul: l’Attore Liminale

Si parla di liminalità per aprire una riflessione sui concetti di limite, confine, soglia, frontiera. Liminale è la dimensione della pratica teatrale che, nel “non luogo” della scena, allestisce un rito che mette in gioco altre linee di demarcazione fra realtà e rappresentazione, presenza e assenza, testo e gesto. Liminale è l’identità dell’artista, che supera con la pratica creativa il confine fra il quotidiano e ciò che in esso c’è di straordinario; autori come Pasolini e Witkiewicz hanno saputo porsi sempre in una posizione di confine, dalla quale fosse possibile mantenere uno sguardo differente sulle cose del mondo e dell’arte. In un momento in cui domina la dimensione dell’identico questi autori rappresentano il punto di partenza nel confrontarci con il nostro, attuale, bisogno di diversità, con la capacità di vedere la realtà in modo libero dalle regole della comunicazione globale. Ygramul LeMilleMolte, con l’apertura del teatro nel giugno 2006 e con la proposta di spettacoli come Edzi Re, e con la voglia di offrire una nuova struttura culturale comincia il suo viaggio attuale, senza il timore del confronto, per superare il limite che ci definisce, ci identifica e ci dona all’esistenza. Oggi ci troviamo a chiamare artista chi appare sulle copertine delle riviste o chi concede interviste per televisioni pubbliche o private. Da quando la straordinarietà è stata cancellata, i criteri della nobilitazione sociale sono diventati banali: successo e popolarità. La straordinarietà viene inclusa gratis. Alla società basta il criterio del successo, che paradossalmente viene da essa garantito. Gli allori dell’artista però hanno un prezzo preciso, perché la popolarità crea delle aspettative. Alla novità, la società preferisce ciò che già conosce – il nuovo è troppo rischioso. L’artista, tentando di reggersi a galla, comincia quindi a copiare se stesso e cade preda della Folla, il suo creatore, dalla quale si voleva differenziare diventando individuo con la sua “arte”. Ma ora si può sputare in faccia al proprio protettore? Sì, ma solo quando è permesso. E allora sputo, e cerco di convincermi di essere un artista perché sputo. Ahi, povero spaccone… Non voglio dire che essere artista significa sputare; voglio dire che la società non prova interesse per l’artista o per l’arte; ciò che interessa è il conforto. I veri artisti sono pericolosi perché dicono cose sconfortanti, e per questo un buon artista è un artista morto. Ma la canonizzazione avviene solo nel momento della morte. Tutte le città partecipano al funerale di chi hanno ucciso. Di fronte alla bara i nemici diventano miracolosamente i suoi amici. Si intonano le lodi del morto, si dice che la sua morte è stato un colpo durissimo per la cultura nazionale. Le reliquie vanno mostrate a tutto il mondo. E parte il carrozzone delle sagre proprio come è successo a Pasolini e  Witkiewicz  – il primo assassinato e il secondo suicida – a cui ogni attore e artista si dovrebbe ispirare. Se vuoi essere un attore liminale, ovvero un attore di Ygramul devi lottare. Devi conoscere il tuo nemico: a lui piace il conforto, evita l’ignoto, lusinga, si tuffa nel successo, fabbrica in serie, desidera i complimenti, tiene conto dell’opinione pubblica, ha famiglia a carico. Il nemico ha già trovato. L’attore liminale cerca. Il nemico riproduce. L’attore di Ygramul produce. Il nome del nemico si trova sulle facce dei vinti, che ti circondano. Ma non devi disprezzarli. Il nemico li disprezza. La loro presenza è per te un ammonimento. Volendo trovare un nemico, cercalo in te stesso, non fuori. Ognuno possiede in se stesso un artista e un nemico. Nessuno nasce artista e nessuno non diventa artista. Essere un attore liminale è un processo. E’ una strada in cui il nemico ti accompagnerà. Lui sarà la fame e la sete. Lui, che ti ricorderà chi hai lasciato a casa e che presto si stancherà di aspettarti, ti indurrà a compromessi e arrendevolezze. In ogni scelta ti suggerirà un catalogo dei ragionevoli (ma opposti a te e alla tua intuizione) motivi per prendere  in considerazione. Ti ricatterà. Ti presenterà la possibilità più oscure o ti alletterà con una strada più facile. Ti farà vedere come hai fatto a fare tanta strada. Lui sarà il laccio, il termine della strada. Se non ti piegherai, e non ti fermerai, sarai un artista, un attore liminale, un attore di Ygramul LeMilleMolte.

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